Dalle Brigate Rosse al Partito Guerriglia

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1. Le linee politiche portanti

Sono soprattutto, se non unicamente, le Br a defi­nire una sistematica politica compiuta e coerente . Volendo estrapolare le concettualizzazioni politiche portanti della lotta armata, è alla loro produzione teorico-politica che ci si deve necessariamente riferire, correlandola alle 5 fasi fondamentali della loro esperienza:

a) la fase della gestazione (1969-1970);
b) la fase della razionalizzazione: l’assestamento teorico e organizzativo (1971-1976);
c) la fase apicale (1977-1979);
d) la fase crepuscolare (1980-1985);
e) la fase epigonale(1986-1988).Tra la fase apicale e quella crepuscolare si insedia una subfase: quella della sistematizzazione dell’impianto teorico-politico che ricopre il periodo che va dalla “Risoluzione della Direzione Strategica” del febbraio del 1978 alla elaborazione e discussione de “L’Ape e il comunista”, testo coordinato in carcere dal “nucleo storico”, tra il 1979 e il 1980. La circostanza che la sistematizzazione teorica si situi a cavallo di “apice” e “crepuscolo” è emblematica del carico di aporie interne e di chiusure verso l’esterno che accompagnano, dall’inizio alla fine, la storia delle Br; come cercheremo di mostrare in questo e nei prossimi capitoli.

Enunciata la periodizzazione, facciamo scattare l’analisi.

Le Br si costituiscono a lato di una dinamica socio-culturale che si sdoppia in due movimenti:

a) sono come inserite dal processo di crisi dello sviluppo capitalistico (dal modo di produzione alle ideologie fino agli assetti politici);
b) esprimono la crisi dell’ideologia rivoluzionaria che tentano di modernizzare con innesti concettuali che, se non ne mettono in questione l’assialità di fondo, ne distorcono apertamente le coordinate di sviluppo strategico e tattico e ne alterano i modelli di azione.

Come attore politico in senso stretto, le Br si pongono e configurano come soggetto storico della “modernizzazione” dell’ipotesi rivoluzionaria, a fronte della crisi del sistema dominante (sotto tutte le latitudini) e di quella delle posizioni afferenti alla tradizione del pensiero e dell’azione rivoluzionari (sotto tutte le latitudini). Crisi del capitalismo (e delle sue ideologie) e crisi della rivoluzione (e delle sue ideologie) costituiscono gli assi cartesiani su cui le Br innescano quella dinamica di movimento che le conduce a strutturare le categorie portanti del loro impianto politico.

La modernità vera, l’uscita dalla modernità capitalistico-borghese, per le Br, sin dal periodo della loro prima gestazione, si situa fuori della crisi del capitalismo e fuori della crisi della tradizione rivoluzionaria. Ma, così operando, è la rivoluzione tout court che esse concepiscono e allocano come Tradizione. Refutate e rifiutate, in più punti, le ideologie rivoluzionarie del passato, rimane in piedi la rivoluzione come Tradizione, come eredità e identità da riafferrare e, a un tempo, integralmente ricostruire. La modernità di cui le Br si sentono depositarie è la rivoluzione sotto forma di Tradizione. Attraverso questa mediazione, esse possono pensare la “modernizzazione” di cui sono portatrici come rivoluzionarizzazione.

La dinamica che all’origine abbiamo scoperto sdoppiata qui si precisa ulteriormente: si tratterebbe di rivoluzionare il sistema dato e la datità fissa del modello sclerotico di rivoluzione che le ideologie rivoluzionarie hanno tramandato. Per questa semantica in formazione, tutto ciò che è attaccato e divorato dalla crisi è perciò stesso degno di essere rivoluzionato: all’interno come all’esterno delle mura amiche. All’esterno, sotto le forme dell’antagonismo che non conosce mediazioni: all’interno, per il tramite di mediazioni e fratture progressive, onde conquistare una situazione teorico-politica più avanzata e adeguata ai tempi.

Possiamo ora procedere all’identificazione dei nodi portanti che viziano la posizione teorica e politica delle Br.

Cominciamo con l’individuare un limite di fondo di natura epistemologica: una dialettica onnivora del riadattamento che fa alle Br applicare paradigmi ed elementi paradigmatici propri a modelli teorici e situazioni sociali assolutamente non in rapporto di conformità con il contesto di una società avanzata quale quella italiana. Procediamo con l’identificare un secondo limite epistemologico: una concezione riduttiva dello statuto della crisi, configurata unicamente come situazione limite catastrofica e non anche come metabolizzazione, crescita e trasformazione dell’ambito in cui agisce.

Poi sopravvengono limiti più propriamente di natura teorico-politica:

(i) la non adeguata analisi dello specifico della democrazia rappresentativa nelle società avanzate;
(ii) la carenza di lettura delle forme politiche intorno cui lo Stato borghese si va ridislocando;
(iii) l’omessa considerazione della funzione rigeneratrice del potenziale di conflitto connaturato alle società altamente sviluppate;
(iv) la mancata rilevazione della frammentazione e della centrifugazione degli attori e dei fenomeni sociali;
(v) una sorta di “giacobinismo militare” che limita il processo rivoluzionario alla ricomposizione del ‘politico’ col militare;
(vi) la sovrapposizione tra forma di lotta e strategia;
(vii) l’effetto di regressione che investe la categoria e la prassi di rivoluzione che, assunta come Tradizione, viene ridotta alla “lotta armata per il comunismo”.

2. La doppia anima

Non è possibile, in questa sede, discutere partitamente l’articolato delle categorie economiche elaborate dalle Br. Possiamo solo fare cenno alle conseguenze deleterie che l’assai elementare teoria economica delle Br e il rilevante deficit epistemologico di tutte le loro posizioni riverberano sulla loro teoria politica.

Va osservato che proprio sulle analisi assai semplificatrici della “concentrazione della produzione” e della “centralizzazione finanziaria” a livello planetario le Br fanno corrispondere, a partire dal 1974-75, la teoria dello “Stato imperialista delle multinazionali” e la strategia dell’“attacco al cuore dello Stato”, il cui ceto politico viene denominato “borghesia imperialista”

Sul piano epistemologico, al centro economico: le multinazionali, viene fatto corrispondere simmetricamente il centro politico: lo Stato Imperialista delle Multinazionali (SIM). Il tutto in un rapporto lineare di causa/effetto che assegna all’economico (così come vuole l’ortodossia marxista e non come è possibile invenire in Marx) un ruolo in ultima istanza determinante rispetto al ‘politico’. L’autonomia della teoria politica delle Br risulta macerata e ossificata da questo tarlo interno.

Più generalmente parlando, l’epistemologia che di fatto sorregge l’impianto delle Br ha una bassa soglia di scientificità e, soprattutto, assume come suoi termini di riferimento modelli di sapere e cultura ottocenteschi.

Possiamo rinvenire queste attribuzioni, per così dire genetiche, sin dalla fase di gestazione (1969-1970) delle Br: ecco come esse teorizzano e legittimano il loro atto di nascita: “Contro le istituzioni che amministrano il nostro sfruttamento… la parte più decisa e cosciente del proletariato in lotta ha già cominciato a combattere per costruire una nuova legalità e un nuovo potere”  Contro le istituzioni e per una nuova legalità e un nuovo potere: le Br pongono la lotta armata come punto di convergenza di questa doppia esigenza. I movimenti dell’azione collettiva solo embrionalmente, per le Br, accedono a questa soglia. È l’azione consapevole e finalizzata, strategicamente programmata, esse sostengono, che può recuperare al più alto livello e stabilizzare la mobilitazione spontanea sul terreno della contestazione efficace del potere borghese e su quello del consolidamento del potere proletario. Questa azione consapevole, strategica e programmata, secondo le Br, è unicamente imputabile all’avanguardia che si costituisce in “organizzazione comunista combattente”.

Già Lenin aveva definito l’azione spontanea delle masse solo come “embrione” della coscienza rivoluzionaria, assegnando all’agire di avanguardia del partito le funzioni: (i) di direzione, ricomposizione e finalizzazione del processo rivoluzionario; (ii) di “educazione” ideologico-politica delle masse. Nel caso delle Br, la funzione di partito è imputata all’avanguardia armata che si costituisce come nucleo fondante e portante del (futuro) “Partito Comunista Combattente” e, nel medesimo tempo, come fulcro della transizione al comunismo, della nuova legalità e del nuovo potere. Le Br si assegnano, così, il duplice compito di anticipare gli elementi teorico-pratici tanto dell’agire da partito quanto della società comunista.

È qui possibile cogliere una particolare mediazione tra l’orizzonte strategico e lo spazio del contingente. I due livelli, nell’analisi delle Br, non si sovrappongono mai; tuttavia, sono continuamente raccordati dalla tattica. La forma partito messa in codice dalle Br è l’incarnazione storica, politica e organizzativa di questa mediazione e ha un doppio movimento. Da una parte, intende attestare sempre più in alto e contro lo Stato l’insorgenza spontanea di massa; dall’altra, allargare sempre più in basso le idealità, le necessità e i valori della società comunista, espandendoli lungo le condotte della mobilitazione collettiva. Tale ordito di elementi, non sempre in equilibrio tra di loro, fa sì che esse, fin dal principio, siano attraversate, al massimo livello di compenetrazione, da un’anima “movimentista” e da un’anima “strategico-organizzativistica”. Elementi rivisitati e semplificati di teoria leniniana dell’organizzazione convivono con una vera e propria apologia dell’azione delle masse, ideologicamente ricondotta a contenuti saldamente e stabilmente anticapitalistici. Corollario dell’apologia sono una concezione e una prassi dell’azione dell’avanguardia secondo cui funzione di partito e mobilitazione spontanea si recuperano reciprocamente al massimo livello. Sul versante opposto, sono estremamente radicate nelle Br tendenze che installano la teoria-prassi dell’organizzazione su un percorso completamente autonomo e parallelo rispetto alla mobilitazione collettiva. Dal principio alla fine, le Br oscillano tra queste due tendenze, le quali nella fase crepuscolare (1980-1985) della loro esperienza danno luogo a delle scissioni politico-organizzative.

3. L’architettura

L’istanza di un nuovo potere e di una nuova legalità si sviluppa inevitabilmente nel problema della prospettiva di potere e nel tema dell’espansione del potere proletario . Sicché la mobilitazione di massa per il potere si interconnette con la questione del potere per la mobilitazione di massa. Le Br si pongono esplicitamente come cerniera strategica, centro attivo e operativo di questa doppia dialettica. Ciò le colloca al di là della tradizione e dell’esperienza del marxismo-leninismo. Nella fase di assestamento del loro modello teorico (1971-1976) e con la successiva sistematizzazione teorica del 1978 (“Risoluzione della Direzione Strategica” di febbraio) e del 1980 (“L’ape e il comunista”), le Br ricomprendono la soluzione del problema e la coniugazione del tema nella categoria del “Sistema del Potere Rosso”, di cui articolazioni fondamentali sono il “Partito Comunista Combattente” e gli “Organismi di Massa Rivoluzionari’’.

Le Br assemblano in maniera assolutamente originale il modello leniniano e dell’Ottobre con quello maoista e della “grande rivoluzione culturale proletaria”. Il “verticismo giacobino” di Lenin viene stemperato e mediato dal principio maoista: “dalle masse alle masse”. Le Br si servono di Mao per “correggere” Lenin; e della teoria-prassi della guerriglia latino-americana per “correggere” Marx, Lenin e Mao. Di Marx conservano il discorso prospettico-strategico della transizione al comunismo; di Lenin, la funzione di avanguardia del partito; di Mao, la caratterizzazione di massa dell’agire da partito. La lotta armata recupera e ricontestualizza, in un quadro partorito di bel nuovo, sia il discorso marxiano sulla transizione, sia quello leniniano sull’organizzazione, sia le funzioni di massa del partito proprie della posizione di Mao.

Le Br estrapolano tutti questi elementi dai loro patterns, evirandoli delle loro causalità e finalità originarie, giustapponendoli in una cornice in cui convivono con elementi a loro estranei. Eppure, quella delle Br non è un’operazione eclettica. Il loro è un grande sforzo di “sintesi superiore” delle tre figure portanti della storia del marxismo mondiale: Marx, Lenin e Mao. Sintesi che esse cercano di rielaborare alla luce delle condizioni storiche della metropoli e degli idealtipi di un nuovo modello di azione: la guerriglia. Quello delle Br è, pertanto, un marxismo-leninismo tutto particolare: quasi eretico, sicuramente scandaloso rispetto all’ortodossia e alle filologie marxiste-leniniste.

Uno dei tratti caratteristici della posizione ideologico-teorica delle Br, emergente già nel loro primo documento di “riflessione teorica , sta in una modellistica astratta dell’“economia del capitale” che non si sposa mai efficacemente con un’analisi del ruolo politico dello Stato , costantemente raffigurato come riflesso dei fenomeni che avvengono nella struttura economica. L’ermeneutica economicista , tipica delle Br, diviene fonte di un approccio politico essenzialista , il quale dicotomizza oltremodo il campo delle forze in gioco, le dinamiche sottostanti e le risultanze derivanti.

Il richiamo alle insanabili contraddizioni della crisi economica mondiale e alle conseguenti fratture interimperialiste, oltre che legittimare la prospettiva della transizione al comunismo, serve, in particolar modo, a puntellare una lettura del quadro politico italiano in chiave dicotomica. Da una parte, la riaggregazione interborghese per la “svolta a destra” e la “riorganizzazione dell’apparato di potere”, in alternativa all’evaporarsi dell’alternativa riformista. Dall’altra, la fondazione dell’ipotesi rivoluzionaria come organizzazione dell’essenza antinomica delle lotte operaie e proletarie sul terreno della lotta armata. Secondo le Br, dalla crisi del centrosinistra la borghesia può uscire riorganizzandosi a destra; mentre, invece, le forze rivoluzionarie debbono organizzare l’attualità della rottura rivoluzionaria, attraverso il rovesciamento dei rapporti di produzione dati. La svolta d’ordine reazionaria, per le Br, non sarebbe un progetto tattico, un’operazione politica contingente. Piuttosto, saremmo in presenza della tendenza politica di fondo, intorno cui si andrebbe ristrutturando la geografia politica delle forze e degli interessi borghesi.

4. Analisi e previsioni politiche

La crisi econo.mica dell’imperialismo, da una parte, e l’alto tasso di mobilitazione collettiva, dall’altra, renderebbero vani gli strumenti di mediazione riformistica del conflitto di classe. Secondo questa sistematica, il conflitto di classe:

a) dal lato della borghesia, sarebbe unicamente governabile con le procedure tipiche del “blocco d’ordine”;
b) dal lato della prospettiva rivoluzionaria, appare, sì, condizione necessaria, ma non ancora sufficiente: su di esso occorre far attecchire lo “strumentario” organizzativo e politico-militare necessario e adeguato.

Che la recessione del ‘63-64 e la mobilitazione del biennio ‘68-69 avessero duramente messo alla prova la tenuta politica e strategica del centrosinistra appare fuori di dubbio. Che, invece, il “blocco d’ordine reazionario” potesse essere la strategia di ricambio del centrosinistra, fino ad attribuirgli dignità di progetto e di tendenza, appare quanto mai azzardato e infondato. Il punto di crisi fondamentale della classe politica di governo e di opposizione, in quel frangente storico e a tutti gli anni ‘80, è quello di essere priva di strategia: sprovvista di un progetto politico di ampio respiro, capace di dipanare i con­siderevoli e gli innumerevoli problemi della società italiana. I governi di centrodestra che si susseguono tra il 1971 e il 1973 alla guida del paese costituiscono, piuttosto, delle spallate prive di disegno strategico, completamente destituiti di organicità e funzionalità politiche, già sul medio termine. Tant’è che sono seguiti da logore riedizioni del centrosi­nistra, a partire dal governo Rumor (Dc-Psi-Psdi-Pri) che si insedia nel giugno 1973. Addirittura, nell’ultimo scorcio del decennio, al centrosinistra segue la “solidarietà nazionale” che fagocita la stessa opposizione comunista nel sistema politico di governo.

Ora, è proprio la fase della “solidarietà nazionale” che porta a compimento estremo e coerente quella carenza di disegno strategico e di progettualità che, dal ‘68 in avanti, fa annaspare il sistema politico italiano. Gli anni ‘70, più che inverare gli arcaici moduli del “blocco d’ordine reazionario”, vedono realizzarsi la “polarizzazione al centro” degli equilibri della classe politica di governo e di opposizione, secondo i moduli integrati del consociativismo costituzionale e del consociativismo di governo. La dinamica politica pronosticata dalle Br risulta falsificata dalla realtà: a breve-medio termine, dalla riedizioni delle coalizioni di centrosinistra; a medio-lungo periodo, dalla fase della “solidarietà nazionale” e dai suoi effetti di lunga durata.

Il giudizio sulla fase politica formulato dalle Br è strettamente riconducibile al loro essenzialismo politico: “Lo scontro armato è già iniziato e mira a liquidare la capacità di resistenza della classe operaia”. Strategia della tensione, strage di P.zza Fontana, licenziamenti e schedature di massa, repressione in fabbrica e nella società, ricorso massiccio alle “forze dell’ordine” e alle “squadre fasciste” indicano, per le Br, che la borghesia si è collocata stabilmente sul terreno della lotta armata. Sull’argomento esse sono lapidariamente chiare: “La lotta armata è già cominciata. Purtroppo in modo univoco, cioè è la borghesia che colpisce. Il problema è dunque quello di creare lo strumento di classe capace di affrontare allo stesso livello lo scontro di classe. Le Brigate rosse sono i primi sedimenti del processo di trasformazione delle avanguardie politiche di classe in avanguardie politiche armate, i primi passaggi pratici nella direzione di questa costruzione” .

5. La strategia comunicativa

Tale trasformazione è ricompresa in una strategia che non intende più dividere e distinguere in due fasi (“preparazione politica, agitazione e propaganda prima, insurrezione armata dopo”) il processo rivoluzionario . Quest’ultimo è, fin dal principio, concepito come processo globale, in cui il ‘politico’ e il militare sono mantenuti in stretta unità: “Di questo hanno tenuto conto le organizzazioni armate metropolitane le quali sin dall’inizio si sono costruite per far fronte globalmente a tutti i livelli dello scontro.

Cosa di particolare, sul piano strettamente politico e in connessione con le funzioni simboliche proprie dell’identità combattente, fa pendere l’analisi delle Br verso la mistica della lotta armata? La risposta va ricercata, andando al di là delle categorie di superficie che esse impiegano, scavando nel sostrato concettuale che connota il sistema cognitivo sul quale edificano il loro concetto di ‘politico’. Come hanno fatto Snow e Benford, elaborando i loro “schemi interpretativi dominanti”, onde poter leggere i “cicli di protesta” , possiamo assumere che un’“organizzazione comunista combattente” (nella specie: le Br) sia portatrice delle funzioni di: (i) agente significante e (ii) agente interpretante, divenendo (iii) parte attiva nella produzione di significati e di idee. Questa assunzione analogica ci pare legittima, essendo indubbio che le Br siano state agente significante e interpretante, attive nella produzione di significati e idee. A dire il vero, qualunque attore o soggetto sociale, la cui azione abbia un’incidenza pubblica, è titolare di queste prerogative. Si tratta di esaminare, nel concreto, come tutto questo si è espresso nel caso delle Br.

Il quadro teorico e politico definito dalle Br perviene ad una concezione dicotomica del ‘politico’ . Quest’ultimo appare come un gioco strategico e un gioco linguistico aventi un’essenza dicotomica: o leva della stabilizzazione borghese-capitalistica; oppure centro di gravitazione del rovesciamento dei rapporti di produzione dati e delle corrispettive sovrastrutture giuridico-politiche.

Qui è l’impiego che se ne fa che definisce la natura del ‘politico’. L’unico impiego legittimo del ‘politico’ sarebbe quello finalizzato alla rivoluzione, in vista dell’edificazione del comunismo. Il gioco strategico del ‘politico’ intenzionerebbe il gioco linguistico del potere attivante il comunismo. La significazione/interpretazione politica è, in questo modello, trasparentemente finalizzata alla pianificazione dei significati/eventi comunisti assenti. Essere agenti del potere rivoluzionario vuole dire, nella fattispecie, che è possibile significare il comunismo immediatamente, senza alcuna mediazione linguistica; senza nessuna fase intermedia; senza che il comunismo sia ancora materializzato in una situazione storica concreta, esperibile eticamente e palpabile empiricamente.

6. Eteronomia del ‘politico’

In questa architettura dicotomico-dissolvente, prassi del ‘politico’ e poiesi del potere si intrecciano. Secondo tale concezione, solo frammentariamente formalizzata dalle Br e, nondimeno, risultante coerente delle causali a base del loro impianto teorico-politico, la struttura interna del ‘politico’ non sarebbe percorsa da stratificazioni differenziatrici e avrebbe un segno/disegno e un senso chiaramente ed esclusivamente di parte. ‘Politico’borghese, a un lato; ‘politico’ rivoluzionario, al lato opposto: ecco la polarizzazione brigatista del ‘politico’. La struttura e la genealogia del ‘politico’ si caratterizzerebbero per il fatto di espellere contraddizioni, stratificazioni di senso e differenziazioni, per dislocarle esclusivamente all’esterno: è all’esterno che qui germina e si sviluppa l’assoluta contraddizione tra ‘politico’ borghese e ‘politico’ rivoluzionario. La reificazione simbolica della politica produce questa scarnificazione del concetto di ‘politico’. Se è l’impiego a designare la natura del ‘politico’, è l’ideologia delle funzioni simboliche che ne contestualizza e definisce l’architettura e il senso. Come si vede, è dall’esterno della sua struttura che vengono sovradeterminati il concetto e le categorie formali del ‘politico’.

Esattamente al contrario di quanto numerose critiche hanno loro imputato, quello integrato dalle Br non è un caso di flagrante “autonomia del politico’’ ; bensì di totale sussunzione del ‘politico’ all’economicismo dell’analisi sociale e all’onnipotenza delle funzioni simboliche. Dunque: eteronomia del ‘politico’; non già autonomia.

L’economicismo dell’analisi e l’ideologia delle funzioni simboliche estirpano le fratture dei significanti/interpretanti dal ‘politico’ e le fissano e irrigidiscono nella prassi politica. Le regioni del ‘politico’, nella sistematica delle Br, appaiono compatte e contrapposte; quelle della prassi politica, invece, continuamente mosse e rideterminate da schieramenti e processi mutevoli. Il rapporto ‘politico’/ideologia delle funzioni simboliche pende tutto a favore della seconda, dalla quale il primo è come rimosso e snaturato. È il concetto polisemico, ma non indeterminato, del ‘politico’ (regolato dalle categorie della metamorfosi) che non rientra nell’arsenale delle culture e delle codificazioni simboliche delle Br.

7. L’escatologia politica

Nel loro secondo documento di respiro teorico , le Br non mutano il quadro teorico-concettuale delle origini: in parte lo confermano; in parte lo radicalizzano. Come già espresso in precedenza , le Br ribadiscono la convinzione di essere lo sbocco del ciclo di lotte sociali del ‘68 e dell’autunno caldo. Dal loro punto di vista, la fondazione e l’insediamento della lotta armata costituiscono il punto di arrivo e di rilancio del ciclo di lotte degli anni ‘60.

La lotta armata, in questa posizione:

a) scongiurerebbe il ripiegamento autodissolutorio del ciclo delle lotte sociali;
b) assicurerebbe la continuità del processo rivoluzionario;
c) approssimerebbe il punto estremo di rottura dell’universo borghese-capitalistico;
d) aprirebbe il percorso della transizione comunista.

Il legame tra lotte sociali e mobilitazione collettiva (a un polo) e lotta armata (all’altro) viene dalle Br letto e postulato secondo una escatologia politica, grazie alla quale le prime trascorrerebbero nella seconda, “oltrepassando” la loro vecchia soglia semantica e la loro vecchia struttura genetica. Per l’escatologia delle Br, la lotta armata sarebbe il prodotto coerente e più alto delle lotte sociali degli anni ‘60 e degli inizi dei ‘70: il passaggio necessario verso una nuova e necessaria dimensione dello scontro di classe; il valicamento dei limiti ereditati dalla tradizione rivoluzionaria e dell’angustia da cui gli stessi movimenti sociali e i gruppi della sinistra rivoluzionaria non possono fisiologicamente affrancarsi.

In un documento del 1974 , l’escatologia e l’essenzialismo delle Br trovano ulteriormente modo di precisarsi, a partire dalla sintesi nuova operata tra operaismo e statalismo. L’attacco allo Stato e l’attacco al fronte padronale vengono reputati codeterminanti strategiche del processo rivoluzionario. Su tutti e due i piani, la cerniera fondamentale da disarticolare è individuata nella Dc, ritenuta elemento di raccordo tra “fascismo in camicia nera” e “fascismo in camice bianco”; centro del “progetto neogollista” e asse portante della riorganizzazione e militarizzazione degli apparati di potere dello Stato.

Per le Br, la situazione politica conoscerebbe uno stato di effervescenza: “Se la crisi di regime e la nascita di una controrivoluzione agguerrita e organizzata sono il prodotto di anni di dure lotte operaie e popolari, per vincere il movimento di massa deve superare la fase spontanea e organizzarsi sul terreno strategico della lotta per il potere solo con la lotta armata” . La contrapposizione tra due schieramenti di classe ostili si prolunga e sublima in contrapposizione tra controrivoluzione in atto e rivoluzione potenziale. Il progetto neogollista, presentato come tendenza vincente, viene considerato la risposta funzionale da parte della borghesia alla “crisi di regime” e ai livelli di lotta operaia e popolare sedimentatisi. “Regime”, per le Br, è indicazione forte e chiara della “centralità della Dc . Il “regime” è identificato come il “centro” della decisione e dell’azione politica: il motore mobile della scena politica. Di questo “regime” e di questa “azione scenica” la Dc è, se così può dirsi, ”il centro del centro”. Sicché centralità operaia, centralità dello Stato e centralità della Dc costituiscono la triade inamovibile dell’ontologia politica delle Br.

8. Il “doppio legame” rivoluzione/controrivoluzione

Ora, tra “crisi di regime” e “processo di controrivoluzione” le Br postulano un legame di coappartenenza. La “crisi di regime”, secondo le Br, involge necessariamente nella controrivoluzione: anzi, in un certo senso, è la controrivoluzione in corso. All’equivalenza “crisi di regime”/controrivoluzione corrisponde simmetricamente un’altra equazione, non meno schematica e spuria: quella sussistente tra disarticolazione/distruzione del regime e rivoluzione. La lettura precipitante del quadro politico, in tal modo, si abbina inestricabilmente con la previsione della lievitazione del potenziale e degli effetti del processo rivoluzionario, a mezzo della selezione dell’opzione armata. Tra il precipizio della lettura e il lievitare della previsione si stipula un “doppio legame”, implicito ed esplicito. Le Br assumono che senza il “precipitare” della controrivoluzione non potrebbe darsi il “lievitare” della rivoluzione; e viceversa. Un unitario processo starebbe alla base di questo “movimento dialettico”: la “crisi di regime” e l’insorgere delle lotte operaie e popolari. Ciò che causa il “ricompattamento controrivoluzionario” è, dunque, anche motore del processo rivoluzionario. Sul punto, le Br traggono patentemente ispirazione da quel passaggio marxiano secondo cui quanto più avanza il processo rivoluzionario, tanto più si rafforza, riorganizza e cementa il fronte della controrivoluzione  È questo luogo marxiano che le Br hanno presente, allorché definiscono il ‘68 e l’autunno caldo il punto di origine “dello scontro di potere” in atto. Senonché, in Marx, la genesi e lo sviluppo delle lotte di classe in Europa, nel ciclo che va dal ‘48 alla Comune di Parigi  , non compare mai come un meccanismo bloccato, all’interno di una dialettica vincolata deterministicamente tra rivoluzione e controrivoluzione, funzionanti come contrappesi che si bilanciano e neutralizzano vicendevolmente. Nel modello proposto dalle Br, rivoluzione e controrivoluzione sono ridotte a due varianti che entrano in rapporto attraverso un gioco di simmetrie e di simulazioni progressive .

Il neogollismo (nella prima metà degli anni ‘70) e la controrivoluzione globale imperialista (nella seconda metà degli anni ‘70) dovrebbero dare soluzione alla (simulata) “crisi di regime”; per contro, la strategia della lotta armata dovrebbe essere la via maestra del (simulato) processo rivoluzionario. In Marx, tanto il processo di costituzione della controrivoluzione che quello attivante la rivoluzione sono solcati da differenziazioni interne: sono sempre visti nel loro movimento, formando ognuno determinazioni non soltanto in contrasto, ma anche in interazione. Mai Marx ha ipostatizzato controrivoluzione e rivoluzione in modelli/tendenze determinati univocamente, in guisa di archetipi universalistici deprivati di una interna dialettica e di una geografia/genealogia complessa e articolata. In lui, controrivoluzione e rivoluzione sono sempre concepite come modelli di azione e reazione altamente articolati e capaci di fornire, ognuna secondo le sue specificità, risposte di feed­back alle sollecitazioni esterne e alle tensioni che intervengono dall’interno. Nel modello marxiano, il paradigma della lotta di classe non scade mai alla contrapposizione frontale e fondamentalista rivoluzione/controrivoluzione, in cui ognuno dei due termini viene ossificato in una figura/movenza elementare, semplificata e rozza. È sempre un che di determinato storicamente, incomparabilmente articolato e cadenzato nel tempo e nello spazio della società e della storia. Vizi e limiti, pur seri, attribuibili a Marx, non attengono a questa modellistica disincarnata ed essenzialista del nesso rivoluzione/controrivoluzione. Aporia di fondo del concetto marxiano del ‘politico’ pare, piuttosto, il vuoto epistemologico che si distende tra teoria sociale della rivoluzione e teoria politica dello Stato e della società. Limite che, addirittura, nel Marx giovane viene giustificato sul piano teorico-epistemologico con la delineazione di una “differenza ontologica” tra il carattere assolutamente ed esclusivamente sociale della rivoluzione proletaria e il carattere assolutamente ed esclusivamente politico della rivoluzione borghese. Questa ontologia condizionerà costantemente la riflessione politica di Marx, fino al periodo della maturità , in cui agisce quale base della teoria della transizione comunista come estinzione delle classi e dello Stato. Lenin si richiama esplicitamente a questa teorica marxiana, allorché delinea la sua concezione del “semi-Stato” e la transizione al comunismo come abolizione delle classi e dello Stato .

In una singolare regressione genetica a concetti/categorie delle origini, componenti interne alle Br (quelle che danno vita all’esperienza del Partito guerriglia), col principiare degli anni ‘80, approdano a queste posizioni politiche. Secondo le Br-Pg, diversamente dalle Br-Pcc, il carattere della rivoluzione nella metropoli è sociale; non già politico. L’esaltazione del carattere sociale della rivoluzione nella metropoli e la concettualizzazione della guerriglia metropolitana come ricomposizione di tutte le pratiche sociali e di tutti i saperi si sposano con la delimitazione della guerra come rapporto sociale, innervato in tutto l’ordito storico-relazionale della società capitalistica . Del pari, il rapporto politica/guerra viene riposizionato: non più clausewitzianamente la guerra come “continuazione della politica con altri mezzi”; ma anche e contestualmente: la politica come “continuazione della guerra con altri mezzi’’ . Il riferimento teorico principale è qui costituito dalle analisi marxiane sul passaggio dalla “sussunzione formale” alla “sussunzione reale” del lavoro nel capitale . Solo che esse vengono indebitamente trasferite dal campo della critica dell’economia politica a quello della teoria sociale della rivoluzione, con un’evidente e mistificante forzatura sul piano cognitivo e scien­tifico.

Dal richiamo al carattere sociale della rivoluzione e dalla sottolineatura della guerra quale rapporto sociale globalizzante risulta lineare approdare alle teorizzazioni della “guerra sociale totale’’ . In questo sviluppo dell’analisi, la riflessione teorica si sublima e, insieme, smarrisce nella superfetazione. Luoghi marxiani vengono in maniera spuria ricombinati con il discorso leniniano dell’inimicizia assoluta che, tra gli altri, ha riscosso il notevole interesse di C. Schmitt . Il risultato è uno spostamento allontanante tanto dalla posizione marxiana che da quella leniniana, su una costellazione di senso assolutamente non omologabile al “discorso decisionista” della coppia polare amico/nemico .

9. La destabilizzazione stabilizzatrice

Ciò che fa difetto alla sistematica politica delle Br è la consapevolezza che quanto più le variabili e le costanti del sistema politico si sclerotizzano, tanto più il sistema, per conservarsi, si trova costretto a incrementare le sue capacità di riadattamento. Con ciò, i margini del conflitto vengono recuperati entro le maglie del discorso politico sistemico, scongiurando l’ipotesi che l’entropia sociale, esternalizzandosi, si converta in una catastrofe rovinosa. Gli anni ‘70 italiani costituiscono, per l’appunto, un esempio paradigmatico di quanto stiamo venendo argomentando . Il passaggio da forza a potere ha rideterminato dall’interno tutte le teorie della sovranità. Inoltre, le funzioni del potere come “mezzo di comunicazione” pongono sempre più in secondo piano l’uso della forza fisica e della strategia repressiva controrivoluzionaria come mezzo di regolazione principale del conflitto sociale. Siffatta transizione tocca nelle società complesse i suoi livelli di soglia.

L’azione delle Br induce effetti destabilizzanti all’interno del sistema politico, non dove intende accentuarne la parabola critica, sino al punto di rottura; bensì allorché ne scompiglia e mette in discussione i complessi riaggiustamenti interni, i riadattamenti, le rifunzionalizzazioni . Proprio questa azione destabilizzante ha un effetto boomerang, a misura in cui obbliga il sistema politico a ritrovare la via dell’accordo e della rinegoziazione dei patti politici dell’intesa, sotto l’urto della minaccia dell’attore armato. L’emergenza medesima è la rinegoziazione perpetua del patto politico all’interno dello schieramento di maggioranza e tra maggioranza e op­posizione.

I tassi di comunicazione interna e i ritmi di velocità della comunicazione in un sistema politico aumentano, allorquando esso si trova ad affrontare, ridurre e ricondurre sotto la sua sovranità fenomeni di turbolenza perduranti e intensi. Il sistema politico italiano è, sì, costitutivamente sprovvisto di strategie all’altezza della complessità dei problemi della società italiana; ma, capillarizzando le sue risposte, è stato capace di diluire progressivamente e progressivamente destrutturare quegli incipit del conflitto sociale portatori di una ridefinizione integrale del quadro politico.

In ciò ha giocato una funzione perversa anche l’incapacità della sinistra, dei gruppi della sinistra rivoluzionaria e dei movimenti di interpretare adeguatamente e adeguatamente organizzare quegli incipit.

I riaggiustamenti e le rinegoziazioni all’interno del sistema politico italiano tra il 1971 e il 1974 e tra il 1975 e il 1979 rappresentano forme di espressione di questa parabola prospettica: centrodestra, centrismo, centrosinistra e “solidarietà nazionale” si succedono vorticosamente, in una progressione zigzagante che non sembra avere soluzioni di continuità e apparentemente priva di una logica precisa e stringente. Diversamente da quello che traspare dalla sistematica politica delle Br, la carenza strategica del sistema politico italiano non significa le sue contestuali uniformità e scheletricità. Il dato più significativo del sistema politico italiano sta esattamente nella sua bassa dotazione strategica e nella sua alta mobilità tattica. Questo profilo ancipite del sistema politico italiano trova negli inizi degli anni ‘70 un punto/passaggio rilevante. Le Br non lo colgono allora; non lo coglieranno dopo. Prima e dopo, formulano le loro domande e cercano le risposte, simulando ideologicamente e simbolicamente la polarizzazione rivoluzione/controrivoluzione in termini di guerra.

I processi appena evocati alludono, in maniera stringente, alla natura problematica del rapporto tra Stato e Br sul terreno della destabilizzazione o stabilizzazione del sistema. Il tema è, assai, delicato e intorno ad esso hanno prosperato e tuttora prosperano le “teorie cospirative”. Cerchiamo, perciò, di chiarire meglio il nostro discorso, formulando una domanda solo apparentemente retorica: “destabilizzare”, “destabilizzare per stabilizzare” oppure semplicemente “stabilizzare”?

Prendiamo le mosse da una distinzione di fondamentale importanza:  la differenza assoluta e incolmabile tra strategia della tensione e stragismo (da un lato) e lotta armata (dall’altro), non solo riguardo alle programmazioni politiche sottese, ma anche e soprattutto con riferimento agli attori politici che ne sono i titolari. Se la strategia della tensione e lo stragismo sono la “risposta regressiva” (autoritaria e cieca) al ciclo delle lotte sociali degli anni ’60, la lotta armata si posiziona come la “risposta offensiva” (altrettanto autoritaria e cieca, ma di segno opposto) alla crisi dei movimenti di lotta.

Nel primo caso, l’attore è lo Stato (altro che “doppio Stato”: la strage era di Stato, come già recitava il titolo di una giustamente famosa controinchiesta). Nel secondo caso, l’attore (le Br) non solo è extraistituzionale, ma anche extrapolitico. Entrambi gli attori qui chiamati in causa hanno come loro programma la destabilizzazione politica. Per lo Stato, la “destabilizzazione” era finalizzata alla “stabilizzazione autoritaria” del quadro politico. Per le Br, la “destabilizzazione” era finalizzata alla “rottura” dell'”ordine borghese”. V’è un’intersezione dello spazio politico in cui le volontà, pur antagoniste, di Stato e Br convergono. Ma questa intersezione è il risultato o, se si vuole (alla Boudon), l’effetto perverso dei raggi di estensione e comunicazione dell’azione politica.

Di questo effetto perverso, certamente, le Br non sono consapevoli: nascono da qui molte delle loro responsabilità politiche e storiche più gravose. Più complicato, invece, è il discorso sullo Stato che dell’effetto (perverso) era certamente conscio. Ciononostante, non pare che possa dirsi che gli obiettivi statuali di stabilizzazione autoritaria siano perfettamente riusciti; al contrario. La “criminalizzazione del conflitto sociale”, di cui il progetto di stabilizzazione è il figlio legittimo, ha arrecato danni durevoli, scavando un fossato incolmabile tra istituzioni e aspettative sociali. Da qui l’incubazione del processo di crisi irreversibile del sistema politico partorito dalla “prima Repubblica” ed esploso nel decennio successivo.

Sulla lunga durata storica, non soltanto le Br hanno ottenuto un risultato esattamente opposto a quello perseguito; lo stesso deve dirsi per lo Stato: la strategia “destabilizzare per stabilizzare” ha condotto ad una “cattiva stabilizzazione”, saltata in aria per linee interne, addirittura in assenza della pressione dell'”attore armato” (il ciclo politico 1990-1993). I progetti che gli attori politici, in questo come in tutti i casi, cercano di “mettere in pratica” non collimano mai con le loro pianificazioni. Quanto più tentano di attuare il “piano”, tanto più vi aggiungono variabili non previste, allargando lo spettro degli effetti non-intenzionali e contro-intenzionali dell’azione politica. Questo nodo è generalmente districabile attraverso:

a) la dotazione di sistemi di riflessività, autoverificazione e correzione;
b) la deviazione dagli effetti indesiderati, intanto consapevolizzati;
c) la revisione in toto delle strategie di partenza.

I sistemi politici più evoluti si dotano, in misura più o meno cospicua, di questo repertorio di chances. Un esempio per tutti: la Francia di De Gaulle, al contrario dell’Italia, è stata capace di assorbire e metabolizzare nel proprio tessuto politico-istituzionale la spinta d’urto della contestazione del ’68. Tornando a noi, non si può dire che lo Stato e le Br siano stati attori capaci, non diciamo di correggere, ma almeno di fare adeguatamente i conti con gli effetti contro-intenzionali delle loro politiche; di essi, anzi, sono stati vittime designate.

Le “teorie cospirative”, tra l’altro, hanno come coordinata debole del loro “discorso strategico” un’ipotesi assai schematica che ricostruisce il teatro dello scontro politico in un modo così sintetizzabile:

a) lo Stato ha operato come attore politico razionale: destabilizzatore a fini di stabilizzazione;
b) le Br hanno operato come attore politico irrazionale: stabilizzatore eterodiretto.

Ma se l’attore armato era così essenziale al progetto stabilizzativo, la sua messa in letargo per 10 anni e la sua riesplosione in un contesto completamente nuovo appaiono semplicemente inspiegabili, rimanendo ancorati alla “teoria cospirativa”. Non mettendo mai in questione le strutture cognitive ed empiriche del paradigma cospirativo, tutto ed il contrario di tutto può essere recepito come conferma della cospirazione. La dietrologia usa come suoi argomenti tutti gli eventi reali e possibili, pur tra di loro dissimili e contrastanti: diviene essa il metro di misura della realtà; non è più la realtà il suo banco di verifica. È un oscuramento delle facoltà conoscitive e, con esse, degli eventi. La dietrologia può, così, elaborare e rielaborare a suo piacimento la realtà, incurante – e, qualche volta, anche inconsapevole – dei “salti mortali” che compie.

Al di là della angustia teorico-politica dell’approccio e delle sue conclusioni, qui si segnala anche un’ostinata pervicacia nel non voler fare i conti con la storia italiana e le sue “onde lunghe”.

10. La catarsi armata

Secondo le Br, la precipitazione autoritaria della democrazia politica converge verso la militarizzazione del rapporto di potere tra le classi. Questo il quadro che loro evocano sul piano economico-sociale, dove l’accumulazione capitalistica, con un rituale quanto incongruo rimando a Marx, si ritiene approdata alla soglia della crisi strutturale.

Così sul piano politico-istituzionale, dove la crisi della democrazia parlamentare e del corrispettivo sistema della rappresentanza politica si ritiene declinare irreversibili forme di autoritarismo reazionario.

Così sul piano culturale, dove la crisi delle teorie dell’integrazione viene vista proiettata, per il tramite delle teoriche della “scarsità delle risorse”, in una delegittimazione culturale categorica del flusso dei bisogni sociali espressi dal proletariato.

Con la loro costituzione, le motivazioni che la sostengono e la prospettiva che la definiscono, le Br affermano che le possibilità della rottura rivoluzionaria stanno esclusivamente nell’opzione armata, con la quale la comparsa di un nuovo discorso e di un nuovo linguaggio, da possibilità, diviene atto: il discorso e il linguaggio scaturenti dall’intreccio di politica e guerra, unica garanzia di quella soluzione rivoluzionaria altrimenti non approssimabile e mai attingibile.

A questo tornante, analisi socio-economica, teoria politica, strategia, prassi politica e programma si stringono indissolubilmente. Per le Br, uscita dalla crisi e uscita dai limiti del ‘68 e dei movimenti convergono nel luogo e nel momento di fondazione e proliferazione della lotta armata.

In primo luogo: i “limiti del capitalismo” costituiscono la possibilità e la necessità del comunismo.

In secondo: i “limiti della democrazia” fondano la possibilità e la necessità della guerriglia nella metropoli.

In terzo: i limiti del ‘68 e dei movimenti impongono la “lotta armata per il comunismo” come nuova forma del processo rivoluzionario.

Secondo le Br, il conflitto non è risolutivo delle contraddizioni sociali. Anzi, finisce col subirle, concludendosi con i morti in piazza e il supersfruttamento alla catena di montaggio. Nella loro sistematica politica, il conflitto viene sempre ricondotto all’ordine dato, sempre da esso manipolato e regolato. Pertanto, esse sostengono, urge alludere ad una nuova forma di ordine politico che dica della pensabilità e della fattibilità di un altro orizzonte sociale possibile: il comunismo. La lotta armata, dal loro punto di vista, è il nuovo ordine politico, sociale e discorsivo nel suo farsi costruttivo: la sua progettazione politica e le sue prassi sociali costituiscono la nuova società in fieri, i nuovi valori della “comunità reale”, aggregati dalla “comunità liberante” della soggettività combattente e dalla “cooperazione sociale” della prassi armata.

L’insediamento della lotta armata operato dalle Br assume la forma di un riflesso restituito da uno specchio deformato. Il rapporto con la storia non è messa in relazione col reale; bensì ricostruzione che della storia dà l’ideologia delle funzioni simboliche. Questo specchio deformante non restituisce all’occhio lembi e territori di realtà, ma catene causali predeterminate da processi definiti in vitro. La storia, i processi sociali e il destino degli uomini sono visti con gli occhiali di una filosofia della storia universalizzante, a mosse precostituite, il cui gioco è già fatto sotterraneamente. Si tratterebbe soltanto di portare alla luce questo gioco e inserirvi dentro le mosse richieste. Secondo le Br, la storia inoltra agli uomini liberi, che lottano per la libertà dell’umanità, una incomprimibile istanza di liberazione: per esse, la violenza politica che trascorre in lotta armata è (appunto) la forma svelata di questa catarsi liberatoria.

Le Br è con presupposte invarianti storiche, non già con l’accadimento storico e la sua processualità, che entrano in dialogo. Le costanti di invarianza, del resto, sono il prodotto epistemologico e gnoseologico delle scienze sociali dell’Ottocento; in particolare, delle fortunate parabole dell’evoluzionismo e del positivismo che traccia cospicua lasciano nella stessa elaborazione marxiana. È noto che per Marx ed Engels la dialettica storica ha un andamento conforme a leggi, vere e proprie regole del suo movimento; regole che, nella sostanza, precostituiscono la storia come divenire della lotta di classe. Le Br traslocano meccanicamente siffatta posizione nella realtà delle società industriali avanzate e, in determinazione ulteriore, la sottopongono ad un’operazione di disossamento teorico-politico e di enfatizzazione guerrigliera. In Marx ed Engels, la violenza politica non si sostituisce al processo rivoluzionario; né assurge al rango di strategia politica.

11. La mitopoietica della guerra civile

Le Br si trovano a un crocevia storico. Esse sono collocate esattamente al bivio di un multiverso critico:

a) la crisi del ‘politico’ moderno e della democrazia rappresentativa;
b) la crisi della sinistra, in tutte le sue forme organizzate e non;
c) la crisi del modello di accumulazione uscito dal secondo conflitto mondiale;
d) la crisi delle teorie dell’integrazione sociale;
e) la crisi del ‘68 e dei movimenti;
f) la crisi della guerra come mezzo strategico della ridefinizione della geografia politica delle relazioni internazionali.

Esse non leggono questa enorme e tremenda massa critica in maniera conseguente e puntuale.

Alla crisi del ‘politico’ rispondono con la messa in codice del primato della politica rivoluzionaria.

Alla crisi della guerra come strategia politica globale rispondono con la teoria-prassi della lotta armata, creando il teatro di senso inedito in cui la politica rivoluzionaria è omologata alla lotta armata e la lotta armata innalzata a strategia fondante e portante del progetto rivoluzionario.

Alla crisi delle teorie dell’integrazione sociale rispondono con la teorica della superiorità egemonico-culturale della progettazione sociale rivoluzionaria.

Al primo deperire delle culture, dei valori e dei comportamenti più vivi del ‘68 rispondono con la riproposizione di culture e valori rientranti in uno spazio simbolico e in un ambito storico tipici di società più arretrate.

Alla problematica e pro.blematicità della ricerca di risposte nuove, alla incertezza di un’esplorazione in terre vergini, esse preferiscono la sicurezza dell’adesione ai valori e alle culture della rivoluzione ridotta a mito, a categoria ideologica. In tal modo, rinserrano irreversibilmente la dimensione culturale nella gabbia dell’ideologia delle funzioni simboliche, spingendo la dimensione politica verso la catastrofe combattente.

Per la sistematica politica delle Br, solo il nesso tra politica e guerra può squarciare l’effetto di padronanza che fa sì che l’ordine politico stenda sul conflitto e sulla società un’imperforabile camicia di forza. Per loro, nelle società democratiche avanzate, l’ordine politico si assolutizza e totalizza. È la rottura di questa totalità politica che costituisce, nel loro discorso, la fonte di legittimazione della lotta armata quale unico terreno praticabile dall’opposizione politica e sociale.

Come dire: proprio perché le società democratiche non assicurano sbocchi di apertura al conflitto, questo si trasforma e deve necessariamente essere trasformato in guerra civile per il comunismo.

Contro il Leviatano non sono possibili mediazioni: ecco, in estrema sintesi, la teoria politica dello Stato delle Br; una sorta di Hobbes capovolto. Alla dominanza, tipicamente hobbesiana, dello Stato sul ‘politico’ subentra il primato del ‘politico’ sullo Stato. Anzi: è il monopolio del ‘politico’ declinato sul versante della guerra per il comunismo che ha qui ragione dell’assolutismo statuale. Qui le Br, inconsapevolmente, rovesciano specularmente uno dei passaggi fondanti della modernità. Inoltre, diversamente dal caso rappresentato da C. Schmitt , a cui esse sono state spesso impropriamente associate, non è l’inimicizia del raggruppamento amico/nemico che qui fonda il ‘politico’, definendone il criterio, l’orizzonte di sovranità e lo spazio di decisione.

Le Br mettono in codice non una contrapposizione di figure e di soggetti; bensì una collisione inestinguibile tra due forme di società, alternative l’una all’altra: l’atto della società borghese-capitalistica contro la potenza della società comunista. Siffatto contrasto irriducibile costituisce, per le Br, la base fondazionale della guerra civile rivoluzionaria per il comunismo e legittima l’antagonismo sociale come contrasto tra ‘potenza’ e “atto”. Ciò che qui va letta non è l’“autonomia del politico” tout court; bensì il monopolio del ‘politico’ assoggettato alle funzioni simboliche della rivoluzione come guerra.

Nasce da qui una teoria politica monopolista che, paradossalmente, intende aver ragione di forme sociali e assetti politici che, a partire dalla crisi delle “democrazie di massa” del primo ventennio del secolo scorso, si vanno costituendo come rottura degli ambiti e delle forme del monopolio del ‘politico’ sullo Stato e del monopolio dello Stato sulla politica; come, tra i primi, assume C. Schmitt, conferendo, peraltro, a tale intuizione una coniugazione altamente conservatrice . Col ‘68, inoltre, si spezzano il monopolio della società politica sulla società civile e il monopolio della rappresentanza politica, fino ad allora imputata al sistema politico-istituzionale .

La sistematica politica delle Br configura, invece, un nuovo idealtipo di monopolio, disegnato dal legame di coappartenenza tra ‘politico’ e guerra. Que­sta nuova forma politica assoluta e totalizzante sospinge indietro gli orizzonti di esperienza della storia, della politica e della società. L’orizzonte simbolico delle Br è quello dell’uniformità e della regolazione, della trasparenza e semplificazione di tutte le forme e le relazioni sociali. All’opposto, l’orizzonte simbolico della storia, della politica e della società parla delle differenze e della differenziazione sociale, della pluralità del senso e della multiversità degli spazi comunicativi, dello sfondamento del tetto dell’amministrazione e pianificazione politica degli ambiti sociali.

Questa inedita soglia di senso, più ricca ed emancipante, riceve dalla mobilitazione collettiva degli anni ‘70 prime, anche se parziali, traduzioni. Non certo casualmente, sono le prassi politico-istituzionali e quelle dell’azione combattente i fattori estranei di mortificazione di questo nuovo insediamento di senso. La ri­sultante coerente è l’arretramento degli orizzonti di esperienza della politica, della storia e della società. Di questo arretramento le Br costituiscono una delle causali nevralgiche. Lungo tutto quanto lo spettro della loro azione, del loro progetto, della loro strategia e del loro radicamento, le Br puntano al futuro, con l’occhio rivolto al passato . È un dramma intenso ed enorme.

12. Un modello di catastrofe combattente: il Partito guerriglia

Isolare il modello del Partito guerriglia vuole immediatamente dire fare centro sulla “campagna Cirillo” che, di esso, è stata la gestazione, la messa in pratica e la verifica (ante litteram) più importante.

Il punto di crisi cruciale dell’azione politica delle Br nell’operazione Cirillo risiede proprio nella realizzazione degli obiettivi prefissati.

Ricordiamoli:

a) “requisizione delle case sfitte”, per contrastare la strategia della “deportazione del proletariato metropolitano”;
b) “salario ai disoccupati”, per “far pagare ai padroni” i costi della la crisi;
c) pubblicazione del materiale ideologico e di propaganda della colonna napoletana e degli “atti” del “processo Cirillo”;
d) smobilitazione della “roulottopoli” della Mostra d’Oltremare.

Le Br conseguono tutti questi obiettivi.

a) la Giunta Comunale e il Commissario straordinario Zamberletti requisiscono più  di 2.000 alloggi e molti di più sono autonomamente occupati dai “senza casa”;
b) ai disoccupati viene erogata, in linea straordinaria, una congrua indennità di disoccupazione.
c) il “Quotidiano dei Lavoratori”, sotto forma di autointervista, pubblica l’opuscolo n. 15 della colonna napoletana e del fronte delle carceri delle Br; mentre “Napoli oggi” pubblica gli “atti” dell’interrogatorio a Cirillo.
d) la Giunta Comunale avvia la smobilitazione della “roulottopoli” della Mostra d’Oltremare e, con un’apposita delibera, ne dispone il completamento entro il mese di settembre del 1981.

Sulla base di tali risultanze, la colonna decide per la liberazione di Cirillo; ma prima mette in esecuzione un obiettivo addizionale: l’”espropriazione”. Ora, l’espropriazione è completamente ininfluente rispetto alla decisione politica di liberare o meno il prigioniero. Il disegno ideologico-programmatico che ispira quest’ulteriorità di obiettivo è: “espropriare gli espropriatori”.

Va precisato che le Br decidono di liberare Cirillo prima e  indipendentemente dall’esito dell’”espropriazione”; vale a dire che, anche senza il pagamento del “riscatto”, Cirillo sarebbe stato liberato. Ciò esclusivamente sulla base del conseguimento dei quattro obiettivi politici messi in piano e precedentemente enumerati.

Ora, è proprio il raggiungimento degli obiettivi messi in piano dalle Br che rende quanto mai visibile un dato politico preciso: la linea di estrema estenuazione a cui erano pervenuti il paradigma politico e il modello culturale della lotta armata.

Due, in particolare, i limiti costitutivi della lotta armata messi impietosamente in luce dalla “campagna Cirillo”:

a) il contrasto belligerante col sistema politico dato, quanto più strappa parziali risultati, tanto più contribuisce a stabilizzarlo regressivamente in una funzione anti-mutamento e di blocco della trasformazione;
b) quanto più si fa stringente e condizionante la necessità del legame con gli strati sociali oppressi, tanto più emerge il rapporto di estraneazione e di divaricazione tra azione combattente e mobilitazione collettiva.

Il che non fa che coronare, con una coerenza devastante, la razionalità controfattuale che è alla base degli “effetti perversi” della pragmatica combattente

Il dialogo che le Br, con l’operazione Cirillo, intendono imporre tanto al sistema politico quanto all’azione collettiva, non vale a mutare la scena politica nel segno dell’emancipazione; né favorisce crescita e arricchimento dei movimenti dell’azione collettiva. Su ambo i lati, tutto è ricondotto alla posizione di centralità che le Br assumono e intendono fermamente mantenere e consolidare.

Con la requisizione delle case sfitte e il salario ai disoccupati, le Br perseguono chiaramente lo scopo di posizionarsi quale baricentro dell’emancipazione e della mutazione rivoluzionaria del sistema politico e, allo stesso tempo, dell’educazione e maturazione politica dei movimenti. Si pongono come Stato: vale a dire, come leva fondamentale dell’ordine politico. Si specificano, inoltre, come partito di movimento: vale a dire, come centro di raccolta e soddisfacimento di bisogni sociali.

Si tratta, per le Br, di approssimare e di alludere a un nuovo ordine politico che non contempli più, al suo interno, lo sbarramento statuale ai bisogni delle masse che, anzi, vanno – per esse –   veicolati nella direzione della società comunista.

Le Br inglobano, così, nella loro struttura e nella loro semantica sia la figura dello Stato che quella dei movimenti, bloccando l’emancipazione dei modelli statuali e la crescita civile e sociale dei movimenti.

Tutto viene fatto ruotare attorno al centro di gravitazione rappresentato dal loro progetto e dal loro assetto politico. Si potrebbe dire: le Br per addomesticare Leviathan gli organizzano contro Behemoth. Col che salta irreparabilmente per aria la polis e il sottostante scenario dello zoon politikon che la sorregge. L’”organizzazione delle masse sul terreno della lotta armata”  altro non vuole essere che l’anti-Stato embrionalmente in funzione di contrapposizione puntuale allo Stato borghese.

La fagocitazione neostatalista delle masse schiaccia i bisogni sociali sulla scala di priorità e sulla gerarchia valorativa dell’ideologia e del programma delle Br. Il modello della “rivoluzione dall’alto”, che pure ha un’ascendenza leniniana e più remote origini illuministico-giacobine, si trasforma in attivazione funzionale delle masse attorno ad un “progetto di società”, le cui strutture portanti, assiologia, ideologia e cultura sono imputate all’avanguardia armata.

Attraverso questa processualità politica e questa concatenazione dialettica, le Br si pongono come nuova e futura classe politica dirigente. Da subito, classe politica legittima alla ricerca della sua legalizzazione.

La legittimazione qui promana dalle Br stesse, dalla loro filosofia della storia . È la loro legalizzazione che esse cercano di inverare, con il concorso della (loro) prassi.

E qui le condotte della legalizzazione descrivono un doppio movimento:

a) rispetto allo Stato borghese, disarticolandolo fino alla completa distruzione, per sostituirlo, trascorrendo da anti-Stato a Stato legale in marcia verso il comunismo;
b) rispetto ai movimenti dell’azione collettiva, dando soddisfazione ai loro bisogni e organizzandoli nella rete comunicativa predisposta dalla progettualità della ragione combattente.

La forma guerriglia, con tutta evidenza, viene assunta, in questo caso, come medium attivo tra ordine politico e movimenti. Un modello politico: il partito, si fonde e ricombina con una forma di prassi sociale: la guerriglia. Il partito, facendosi guerriglia, qui legittimerebbe i movimenti e li sospingerebbe più saldamente e stabilmente sul terreno della lotta armata. Per contro, proprio riconnettendosi alla forma politica del partito, la guerriglia   –  secondo le Br –  non scadrebbe al livello della dispersione e dello “spontaneismo armato”.

Di nuovo, emerge il nucleo causale del ‘politico’, secondo la grammatica dell’essenzialismo politico delle Br: sono sempre e solo le Br, autotrasformatesi in guerriglia, l’unico centro di decisione e legittimazione politica. Tutto il resto rimane proiezione dei loro obiettivi, della loro problematica e delle funzioni simboliche proprie delle loro ideologia. Lo Stato, in ciò, compare come Alter; i movimenti, come alleati da educare e governare.

C’è qui, nelle Br, una rudimentale teoria dell’allocazione politica, a misura in cui l’anti-Stato si fa garante dei bisogni delle masse. I valori dell’anti-Stato vengono proiettati come riferimento politico unico nella massa dei bisogni sociali. In tal modo, la critica dalle Br inoltrata alla democrazia politica si impantana nelle secche di una moderna forma di assolutismo, collocandosi, sul piano epistemologico e storico, al di sotto degli stessi paradigmi democratici. I movimenti della mobilitazione collettiva, per parte loro, vengono depauperati dei loro valori, destrutturati e totalmente non visti e inascoltati dalle Br: dalle lotte operaie e sociali degli anni ‘70 al movimento del ‘77 fino alla mobilitazione collettiva a Napoli nel dopo-terremoto.

Valori, potenziale ideologico e programma diventano, nelle Br, collante sclerotizzato che si spinge fino al punto estremo di tradire l’orizzonte della “società giusta”, della libertà e dell’ eguaglianza immanenti all’utopia comunista, pure originariamente causa fondazionale dell’opzione armata.

Siamo qui messi di fronte ad una perversione tremenda: il rovesciarsi catastrofico di alcuni assi cruciali del ‘politico’. Catastrofe che, al suo interno, intenziona la dissoluzione di un intero immaginario collettivo e di un compiuto universo simbolico. È una tragedia politica che si consuma a danno di chi la subisce e di chi la agisce e che, per molti versi, è inenarrabile. È una corruzione culturale che ricorda, assai da vicino, quella “barbarie della riflessione” genialmente individuata  e descritta da Vico. È un ritrarsi del pensare politico, arrovellatosi e smarritosi nelle proprie interne inconclusioni.

È, in un certo senso, singolare che il dibattito sulla lotta armata, in generale, non abbia nemmeno lambito le regioni  perimetrali di questa catastrofe politica. Ancora più grave è che la sinistra, nel suo complesso, non si sia interrogata sulle cause, gli effetti e le connessioni di questo cortocircuito politico.

Che cosa è la formazione, l’evoluzione e la crisi della lotta armata, se non una parte aliquota e perspicua della più generale crisi delle sinistre in Italia? Che cosa è la catastrofe del ‘politico’ consumatasi nel paradigma e nell’esperienza della lotta armata, se non parte aliquota e perspicua della crisi del ‘politico’ contemporaneo, principiata all’inizio del secolo scorso con la crisi delle “democrazie di massa”? E questa crisi del ‘politico’ non è l’interfaccia del perdersi, dello spegnersi e dell’appiattirsi dei destini individuali (degli stessi militanti della lotta armata) nelle società complesse?

Il rovescio catastrofico del ‘politico’, esito coerente dei modelli culturali e di azione esemplificati dalla lotta armata (che, con Weber, verrebbe voglia di definire: suo idealtipo), è rinvenibile in forma pura nell’operazione Cirillo e nei contesti di azione e comunicazione cui pone capo.

Proprio la conformità dell’azione politica al suo scopo e l’inverarsi  degli scopi immanenti al modello bloccano e dissolvono la  teoria-prassi delle Br, esaurendone il ciclo vitale e non lasciando aperto alcun margine, alcun varco, alcun residuo. Prassi politica e obiettivi politici raggiunti chiudono lo spazio politico e comunicativo: lo collassano dall’interno, per dir così. Anche per questo l’esperienza storica del Partito guerriglia non ha che il tempo e lo spazio di una meteora: brucia in poco meno di un anno tutte le sue energie, dissolvendosi senza residui.

Questo particolare crinale di vaporizzazione della razionalità combattente è una “pietra dello scandalo” che i militanti della lotta armata (in primis, i militanti delle Br) non hanno saputo vedere, né prima e né dopo, finendone abbacinati. Altrettanto “scandaloso” è che tutte le letture, o quasi, abbiano sorvolato su queste cupe profondità, preferendo, più pigramente, allestire superfici di estrema semplificazione e distorsione.

Il modello di catastrofe del ‘politico’ esemplificato dal Partito guerriglia reca scritti in sé lo scandalo e la menzogna della lotta armata, in una delle versioni politiche possibili che, al più alto livello, ricombinano calcolismo accecante e fredda razionalità. La ragione pigra ha, invece, preferito accontentarsi di simulacri di verità, spettacolarizzati e massmediati, a metà strada tra l’esorcismo e la scomunica febbrile.

È investigando attorno a questi “nodi forti” che, nella ricerca dei fondali della verità e dell’autenticità dell’esperienza storica della lotta armata, l’autocritica e la critica riprendono il posto che lo scandalismo esorcistico aveva loro capziosamente sottratto. Solo così la storia italiana che va dagli anni ’60 agli ’80 del secolo scorso può cessare di essere interpretata e riscritta dai media o nelle aule dei tribunali.

13. Postilla sulle teorie cospirative

Come è noto, una delle chiavi di lettura più accreditate (se non la più accreditata) sul fenomeno della lotta armata è che essa sia stata eterodiretta da poteri occulti, con cui avrebbe stabilito accordi e/o negoziazioni, perlomeno in linea di fatto . Siffatti poteri sono talvolta identificati nei “servizi segreti” e/o paralleli (italiani e stranieri); talaltra, in forze politiche ben precisate (anche stavolta italiane e straniere), interessate a destabilizzare il “teatro italiano” nel più generale quadro del “duopolio” Usa/Urss che, all’epoca, governava le relazioni internazionali. Ovvio che, in queste teorie, l’eterodirezione destabilizzante della lotta armata ha causali e finalità divergenti, se non opposte, a seconda che il piano sottostante persegua l’obiettivo di favorire gli interessi degli Usa o dell’Urss.

Intorno a queste teoriche sono, poi, sbocciate delle “varianti sottosistemiche”, specialmente nella giurisprudenza dell’emergenza e nell’editorialistica mass-mediatica che non vanno troppo per il sottile e, disinvoltamente, ipotizzano eterodirezioni direttamente criminali, con inevitabili corollari che non si limitano a favoleggiare di commistioni con mafia e camorra, ma addirittura danno per scontata la sudditanza della lotta armata ai grandi poteri criminali (vedi l’ipotesi camorra/Cirillo, banda della Magliana/Moro, ecc. ecc.). Sono, soprattutto, le versioni proposte da giudici, giornalisti e uomini politici più vicini all’ex Pci e oggi gravitanti nell’area dei Ds quelle che più si qualificano in questa direzione.

L’indagine critico-autocritica condotta in questo lavoro ha, tra gli altri, anche l’intento specifico di confutare le basi dei teoremi cospirativi: non attraverso il confronto diretto con essi; ma, piuttosto, smontandone indirettamente i presupposti e le risultanze, ponendo in essere una ricognizione macrosistemica e, insieme, microfisica della lotta armata. La connessione tra il livello “macrosistemico” e quello “microfisico” ha il fine precipuo di porre le condizioni, affinché la lotta armata “parli” dal contesto suo proprio e naturale, nella sua relativa autonomia di senso e ben dentro la raggiera delle relazioni politico-sociali che le competono. Tale combinazione, infatti, consente di restituire il fenomeno lotta armata alle sue causali, alle sue strategie, alle sue finalità, ai suoi esiti e alle sue derive, dissolvendo in radice le ermeneutiche del sospetto.

Tra tutte le teorie cospirative c’è ne è qualcuna non inquinata da strumentalità politiche e non unicamente risolta nello scandalismo e nelle ricostruzioni fantapolitiche per puri scopi di egemonia politica. Ci riferiamo alle analisi che da anni conduce G. Galli .  La tesi è nota: la lotta armata avrebbe potuto essere sgominata, fin dall’inizio; non lo è stata, perché è stata usata per la destabilizzazione del sistema per puri fini politici e di potere. Qui, a nostro avviso, fa difetto un’analisi sistemica e complessa della politica. Nell’interazione politica, ogni forza tende a trarre profitto dall’azione dei suoi competitori e dei suoi avversari; come all’inverso, ogni azione politica ha effetti controintenzionali: fa il “gioco” del competitore e dell’avversario e non solo il proprio. Nel nostro caso, ciò è vero non solo per le Br, ma anche per il sistema politico italiano bloccato; e lo abbiamo appena finito di vedere poc’anzi .

Si tratta di un fenomeno antico e costitutivo della politica. Non per questo si può, in automatico, concludere che una forza sia sussunta sotto l’altra oppure eterodiretta dall’altra. Una conclusione di questo tipo rivela una concezione granitica della politica che non corrisponde ai gradi della sua complessità e non-predittività. Le teoriche cospirative hanno in comune proprio una visione della politica che è, insieme, funzionalista e organicista. Difatti, la considerano un “organismo” coerente di funzioni “trasparenti”. Quello politico sarebbe, allora, solo e sempre il “gioco delle trasparenze” o, all’inverso, quello delle “inconfessabili verità”. Per esse, in definitiva, la politica o è solo il teatro della verità, oppure solo il teatro della menzogna.

Così non è. Ci sono sempre effetti imprevisti e nessun progetto o fatto ha una coerenza assoluta: la realtà, quasi sempre, lo smentisce. Tra progetti/fatti omogenei oppure disomogenei, se non antagonisti, sussiste una ampia catena di relazioni non univoche che va esaminata criticamente. Un’osservazione critico-empirica di questo tipo deve presiedere al giudizio politico. Altrimenti, dovremmo concludere che, siccome ha consentito a Bush di scatenare prima l’attacco all’Afghanistan e dopo la guerra preventiva contro l’Iraq, l’attentato alle Twin Towers è stato opera dell’amministrazione americana. Tesi chiaramente vaneggiante, ma che, non a caso, trova sostenitori oltre oceano. Nel loro piccolo, le teorie cospirative sulla lotta armata cadono in questo tipo di errore. Se si pone la pura e semplice intenzionalità come metro di misura dell’azione politica e dei suoi risultati, non si va molto più in là di conclusioni dietrologiche, a dispetto dell’evidenza storica e politica.

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